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martedì 16 settembre 2014

La zuppa del demonio

Questa favolosa espressione non è, purtroppo, mia, ma di Dino Buzzati. Lo scrittore chiama così la colata d’acciaio in fusione, ribollente nei nuovi altiforni installati nell’Italia contadina degli anni’50 (Il pianeta acciaio, 1964). E forse allude all’ambiguità di quella zuppa che gli operai recentemente inurbati,  installati in prossimità delle ciminiere che oscurano il cielo di fumi, possono versare nei loro piatti con gli stipendi ricevuti dai padroni dei grandi impianti industriali. 

La zuppa del demonio è un documentario di Davide Ferrario che si propone di indagare l’idea di progresso in Italia nella prima metà del Novecento, sino alla crisi petrolifera del 1973. La cosa più bella e interessante è la scelta del materiale di repertorio con cui è costruito, proveniente da vari archivi cinematografici del cinema d'impresa. Spesso sono reportage di scrittori e giornalisti noti, da Buzzati a Zavattini (più l’immancabile Pasolini: una tassa quando si trattano certe tematiche). Il commento del regista è quasi inesistente, poche parole recitate da una voce fuori campo. Tutta l’interpretazione è affidata a una scelta accurata dei materiali e al montaggio.

  Mi piace di questo film l’attenzione a una dimensione troppo assente e spesso falsata nel cinema: quella dei processi e dei luoghi di lavoro e di produzione. Le fabbriche sono indagate nella loro dimensione di strutture fisiche, nel loro inserimento nel contesto geografico e ambientale (la campagna, la spiaggia, la città), nella loro rappresentazione artistica (Dziga Vertov in primis), poi nelle persone che le fanno funzionare. Una delle sequenze più straordinarie, che da sola vale il biglietto, è l’uscita felice e gioiosa degli operai dalle officine di Mirafiori a Torino nel 1911. In splendido bianco e nero li si vede precipitarsi fuori dai cancelli, ma genialmente la macchina da presa non è piazzata davanti al cancello stesso, bensì perpendicolarmente, all’angolo dell’isolato. Alla sirena del mezzogiorno gli uomini corrono fuori ridenti, si precipitano, si abbracciano. Sono in tuta, camicia, cravatta. Poi escono i capetti, i futuri Quarantamila. Sono in completo, portano l’occhialino, la cravatta, la camicia bianca, la paglietta. Sigaretta all’angolo della bocca e sussiego. Ostentano distacco dalla fretta degli altri, camminano piano, in gruppo, e non li guardano mai. Perfetti.
Mussolini chiamato a inaugurare nel 1924 le nuove officine di Mirafiori e la FIAT chiamata a garantire l’assistenza meccanica con camion attrezzati all’uopo all’ARMIR durante l’invasione dell’URSS insieme all’esercito hitleriano. Fin qui la parte più riuscita, mentre il seguito del film, pur presentando materiale molto interessante – sulla pubblicità, l’arrivo dell’informatica e l’automazione della produzione, la costruzione di grandi infrastrutture come le dighe, dove ho creduto quasi di riconoscere le mie montagne, l'estrazione del petrolio, l’Olivetti – rimane troppo muto sulle reazioni che pur cominciano a manifestarsi in conseguenza di quel progresso. Antagonismo della natura, come nel caso della frana del Vajont, antagonismo di chi fa vivere la fabbrica, cioè gli operai, antagonismo di chi vede nello sviluppo industriale non normato la distruzione di ambiente e salute (quanto attuale quest’ultima!), antagonismo tra industrie e nazioni (Mattei). Tutto questo dal film scompare: sembra che le fabbriche, gli operai e i consumatori vivano sospesi in un limbo meccanico che non conosce altro. Ora, certo che di queste tematiche si è parlato molto di più, ma l’eliminarle completamente non giova alla comprensione dello scenario complessivo. Che si conclude con le “domeniche a piedi” del 1973 (“Che pace!” ricordava sempre mio nonno che ci aveva anche girato un filmino in superotto): una battuta d’arresto, peraltro molto temporanea, dovuta a una causa del tutto esterna e sovraordinata eppure, alla fin fine, come nei grandi sviluppi storici, la produzione delle macchine è continuata, vincente, sopra la testa e il pensiero di chiunque vi fosse coinvolto senza possederle. In Italia dagli anni’80 è arrivata la deindustrializzazione, a cominciare da quella avanzata, poi la delocalizzazione. Non sono più gli operai a passare per i giardini delle palazzine di Olivetti ma l’archivista che custodisce e riordina le testimonianze visive di un’epoca.    

La battuta indimenticabile arriva nell’intervista a due operai della FIAT. Domanda: “Avete trovato difficoltà nell’adattarvi al lavoro in fabbrica? Tempi, orari, movimenti, ambiente, controllati, rigidi?”. Risposta di un immigrato meridionale dal viso infantile, grande sorriso sotto i baffi e l’aria di chi la sa lunga: “No. Ti dico perché. E’ che io ho fatto il militare. E qui, faccio come se fossi sempre militare”.
 

Ah, quella sopra non è la zuppa del demonio, ma la mia zuppa estiva di fagioli freschi… o meglio ciò che ne resta, perché si sa, quel che viene al demonio ha anche la proprietà di scomparire quando più gli aggrada. 

14 commenti:

  1. carissima ti scrivo super velox dall'uffiico solo per dirti che leggo sempre quello che scrivi ! sei bravissima nell'esporre e nel trovare argomenti originali che fanno sempre riflettere...grazie per queste perle di cultura che mi permettono di arricchirmi . ti abbraccio forte

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    1. Beh, mi stupisce sempre con piacere leggere di questi apprezzamenti. Il film dovrebbe essere ancora in giro, comunque.

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  2. Quel documentario non l'ho visto e me ne dispiace.
    L'industria ha cambiato le nostre abitudini, e non sempre in meglio.
    Sarebbe interessante vedere la differenza dell'uscita degli operai dagli stabilimenti di oggigiorno...se non fosse che questi sianoin numero sempre più esiguo.
    Per la zuppa, la tua non quella del Diavolo, non ho parole! Vedo che hai ancora sane e buone abitudini!!!!
    Baci
    Nora

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    1. Sì e forse il numero ha cambiato le cose più di tutto il resto. In Italia c'è stata una deindustrializzazione fortissima, in tutti i settori. Quanto alla zuppa le sane abitudini sarebbero quelle di pulire il piatto, o di mangiare sani legumi freschi? ;-)

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    2. Decisamente quella di pulire il piatto!
      (Avevi dei dubbi?)
      Baci
      Nora

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    3. Son di quelle abitudini che si prendono volentieri :-)

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  3. Ciao Pellegrina, sono di corsissima e non ho nemmeno tempo di leggere questo post che si preannuncia interessantissimo. Ma volevo dirti dei pomodori, in realtà più che il sugo non saprei cosa farci a meno di non farli saltare a pezzetti con l'olio, l'aglio e un po' di sapori e condirci comunque una bella pasta. Ciao bella a presto :)

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  4. La zuppa del demonio. Vero. L'ho vista, e una volta che si vede, e si vive la situazione, viene da pensare. Era il 90, inverno, alla fonderia di Carmagnola della Teksid. La colata di ghisa dall'altoforno, dentro nella siviera trasportata da un muletto. E sul muletto l'operaio, a tre metri dalla cascatella della ghisa fusa. In canotta, per resistere al calore. Ma chi è stato in fonderia sa che si è coperti solo da un tetto, e non ci sono pareti: attorno la temperatura è vicina allo zero. L'operaio viaggia guidando il suo muletto fino alle forme per fare il getto: aziona i comandi e versa la ghisa, con precisione, dalla siviera dentro i fori degli stampi nella terra. E poi ricomincia. Arrostito sul davanti, gelato sulla schiena.

    Un po' distante operai muniti di mazza toglievano le bave ai basamenti dei motori della Tipo. Mi ricordavano i carcerati di "prendi i soldi e scappa" di Woody Allen. Mancava solo la catena ai piedi, il resto era identico. Otto ore a menar mazzate.

    Quello che mi stupì, allora, era che eravamo negli anni 90, ma le scene sembravano da archeologia industriale. Io vorrei che tutti quelli che parlano a sproposito di lavoro facessero uno stage di una settimana in fonderia. Sarebbe illuminante per capire.

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    1. Grazie per questo racconto che sembra fantascienza ai troppo comuni mortali. Anche se non l'ho mai vista, concordo con le tue parole. Mi viene in mente la Thyssen, per cominciare. Davvero una fonderia può funzionare solo così? Ad ogni modo sì, dovrebbere essere uno stage obbligatorio ;-).

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  5. Non avevo mai sentito parlare della zuppa del demonio. in Italia lo sviluppo industriale ha consentito grandi progressi e diffuso benessere, però molti investimenti hanno inesorabilmente danneggiato l'ambiente trasformandolo in una landa deserta e puzzolente. E spesso si sono fatti investimenti sbagliati che hanno peggiorato la vita di molte persone invece di migliorarla! E anche il lavoro in fabbrica è stato (ed è tuttora) troppo spesso nocivo per la salute dei lavoratori ed alienante.

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    1. Infatti, hai ragione. C'è stata ben scarsa compenetrazione fra l'interesse immediato e quello più ampio di tutti quanti.

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  6. Questa volta ho letto, molto bello il tuo post, sei brava con la penna... ops con la tastiera ;) mi piace leggerti, torno presto, un bacione

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