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Toulouse en érasmienne

domenica 29 dicembre 2013

La favola di Natale: Laurent, il mestiere, le tasse



Ciao Laurent, parti per queste vacanze? Mi affitteresti il tuo appartamento come quell'estate, due anni fa? Devo venire per ricerche urgenti lì prima che chiudano la baracca fino al prossimo autunno. Hanno deciso di traslocare proprio adesso, sono disperata. Grazie!
L. benvenuta! Sì, parto, puoi stare a  casa mia, ora abito con altri due amici, sono sistemato meglio, li avverto subito. No, non è il caso che tu mi dia niente: l'altra volta ti ho chiesto dei soldi perché non avevo molte disponibilità, ma adesso è diverso. Vieni quando vuoi.
Ora, con Laurent non è che si sia proprio amici di vecchia data. Ci siamo visti in tutto tre volte, per complessiva forse mezza giornata e solo per questioni relative all'affitto della sua casa. Eppure, con il senso dell'ospitalità che ho trovato in molti francesi, per lui è semplicissimo lasciarmi il possesso della sua stanza, della sua connessione, del suo buffo letto a castello matrimoniale che cigola come se si volesse smontare immediatamente ma è solido, mi ripete ogni volta, e poi se regge lui che è il doppio di me, a maggior ragione reggerà me, mi dico tutte le sere mentre salgo nella mia stanza aerea con colonna sonora incorporata. In breve, tutto ciò che si trova in casa è per me, mentre lui pensa a partire.
Al suo ritorno, mentre la lavatrice fa il bucato delle mie lenzuola, parliamo un po'. "Ho aperto la mia ditta", mi fa orgoglioso questo giovane uomo di forse venticinque anni, che ha girato mezzo mondo e vive in una spoglia e grande casa, cui non nuocerebbe una rinfrescata, con altri due coetanei. "Abbiamo un ufficio, su verso la collina. A fine gennaio sarà un anno."  Da sempre Laurent sognava di insegnare matematica. "Capisci, entrare in contatto con un allievo, stabilire un rapporto, cercare di conquistarne la fiducia. Porsi un obiettivo, aiutare l'allievo a raggiungerlo, vederlo sviluppare le sue capacità.". Però, quante cose dietro la matematica. "Sai, ho sempre dato lezioni mentre studiavo. Ma senza ricevuta, in nero, come si dice. Dopo quattro anni, ormai, i genitori mi conoscevano, mi mandavano altre persone. Ho dovuto coinvolgere un amico, molto bravo anche lui. Adesso ho diciassette allievi, quattordici li vedo regolarmente, due ore a settimana, altri tre meno spesso. Vado a casa loro, mi piace entrare nelle case, osservare. Oramai sono lionese d'adozione, io che vengo dalla periferia parigina." Un po' come un precettore di un tempo. "Però, a questo punto, ho detto: Ne faccio il mio mestiere. E ho aperto l'azienda. Adesso, faccio le fatture, pago le tasse. Tutto in regola." E sorride.
E' e si sente adulto, ormai. Finalmente.
Da quattro mesi, Laurent ha finito i suoi studi di matematica. Alla Normale.



P.S.: ogni mancanza di raffronto con la situazione italiana n o n è puramente casuale.

sabato 7 dicembre 2013

Ma le zingarelle saranno la versione d'epoca del bunga bunga?

Anzi, coi toreri "fra le braccia dell'amor" andiamo pure nella prestazione ambosessi. Però.
Non che la giornata fosse cominciata male. Anche se si lavora di sabato, farlo qui:



 non è poi la cosa peggiore del mondo. Soprattutto se devi scovare materiale utile tra questi sfondi:








e sotto questi sguardi.







Purtroppo c'è un interludio molto stonato.
Eccezionalmente sono con Bianchina e la lascio obbediente sulla spianata posteriore. Quando mi cacciano, perché ovviamente son sempre l'ultima a andare via, vado a comprarmi qualcosa di buono e chiedo di pagar con la carta di credito. Risposta inverosimile quanto inedita: "Non prendiamo carte straniere." Devo aver fatto una faccia piuttosto eloquente, perché qui un'occhiata pesa più di un urlo - e non cesso, anche quando non mi piace, di ammirare la classe nell'interazione sviluppata da questo popolo. Dopodiché, da brava, torno alla macchina. La apro. Metto giù il sacchetto, lo zainetto, il pc  (il problema del post precedente persiste :-/). La giacca. Per motivi imperscrutabili, forse per la seccatura presa nel negozio, infilo le chiavi nel cruscotto. E, ovviamente, chiudo la porta. Sono fuori. Loro, dentro. Forse nella posizione meno consigliabile per lasciarle dentro a una macchina. Fuori, io sono letteralmente senza più nulla.Tutto sta dentro. Chiavi. Documenti (miei e suoi). Carte. Computer. Lavoro dentro al computer!!!! Appunti!!!!!! °O° l'urlo di Munch mi fa un baffo. Stilografica, cioè "quella" stilografica. Chiavi di casa. Telefono. Numeri di telefono. Cappotto. Navigo. Soldi. Nulla. Tutto.
La situazione è troppo seria per disperarsi. Attraverso con nonchalance il parco mentre cala la sera. Almeno le chiavi non si vedranno troppo. M'infilo nel métro, santificando una volta di più il servizio pubblico ubiquo di questa meravigliosa città. Esordisco: "Signora, ho un grosso problema." Di là dal vetro la signora si dispone a ascoltare col sorriso d'ordinanza che significa: "Ahi. Qui grossa grana in arrivo. Lo sapevo che non dovevo farmi incastrare di sabato prenatalizio nel pomeriggio". "Sto facendo ricerche qui all'Archivio" Educato stupore. "Oggi ho lasciato la macchina lì dietro" (specificare non guasta, perché è un posto di balordi e fors'anche altro). "Poi mi son chiusa fuori da sola" "Sguardi impazienti. "Non ho più nulla. Nemmeno la giacca". E iocosavuolechelefaccia, si legge negli occhi dell'impassibile agente RATP. "E abito a [luogo dall'altra parte della città]". Sorriso estatico: "Ah, ma vuole che la faccia passare!". Il sollievo è tale che mi srotolerebbe la guida rossa. E mi apre i complicatissimi tornelli tra cui fuggo come una che ha alle spalle il vento parigino mentre è rimasta in soriola.
Per fortuna qualcuno in casa. Altro educato stupore per la mia tenuta alquanto leggera, dato che di solito gelo dal freddo. Afferro il duplicato delle chiavi, che per fortuna abitava proprio là dove ricordavo, e riparto.
Totale, 4 ore e mezzo. Ma il sollievo di rivedere Bianchina sana e salva e ritrovare il mio lavoro intatto è difficile da descrivere.

Finalmente a casa, in una seria nebbiosa.
Un rito che da tanti anni non riuscivo a onorare. La radio, il silenzio, nessuno tra i piedi, la nebbia.
Il maestro scende.
Daniele Gatti dedica la serata a Nelson Mandela. Poi dirige con lento garbo e continuata intensità in un susseguirsi di atmosfere sospese. Diana Damrau, malgrado le iniziali incertezze nelle note gravi, ha una personalità così straripante, una compiutezza teatrale così consumata che non m'importa. Italiano perfetto dizione chiara. Soprattutto, la recitazione nella voce. Non perde una sfumatura. Accetto persino le risatine: saranno astuzie per riprendere fiato? Già da quando comincia con "Godiam. Godiam, fugace e rapido", il tono basso e intimo. Ha ben chiaro che "E' strano" non è una palestra di acuti, ma una scena teatrale compiuta. E che una primadonna dimostra tanto più di esserlo quando straripa dentro quel che deve fare, non quando lo calpesta per mettere in luce se stessa. Mi piace come fa cozzare l'amore e i suoi tremiti con la disperazione che affiora quando capisce che la sua vita la riacchiapperà: "Follie, follie." Quando pronuncia "folleggiare" è veramente folle, in trappola, oppressa, costretta e combattuta fra pressioni delle abitudini e dei retaggi di una via intera e dall'altro canto, dai desideri e dal timore di altro.  Non è vero che "la personalità di Violetta esce nel secondo e terzo atto", almeno se, invece di pensare agli acuti (e del resto una cantante che s'è offerta in vita sua innumerevoli scene come questa, che ci dovrebbe trovare ancora in qualche acuto?), si pensa al senso drammatico e anticipatore della scena, forse la più spontanea di Violetta, perché la canta da sola, senza interazioni esterne, se non il ricordo, che ci piace immaginare tale, di Alfredo che le sussurra amore tra le quinte della festa.
E poi mi piace questa Violetta adulta, favorita in ciò dal timbro, per quanto innamorata. Forte, spoglia, cosciente.
L'opera è una meravigliosa prova di come una donna si sappia uccidere con le sue stesse mani. Sotto sotto, ma mica poi tanto, ogni volta non riesco a concepire come non dia un sacrosanto calcione a quell'impiccione di suocero beghino. Nessuno la obbliga a lasciare Alfredo. In effetti lì sta il punto debole del romanzo all'origine: perché la storia vera di Alexandre e Alphonsine non prevede interventi paterni su una donna angelicata, ma, cosa molto più moderna, la difficoltà di rapporto tra uno squattrinato e una prostituta d'alto bordo con annesso padre protettore. Donna che molto argutamente qui in Francia presentano come quanto di più lontano dalle lacrime di Pretty woman nel suo palco - e per fortuna!!! Piuttosto en femme libre. E in effetti oggi è forse questo aspetto che potrebbe far reggere una storia la cui dose di moralismo ci siamo per fortuna gettati alle spalle.
Altra cosa che mi piace è l'atmosfera raccolta e sempre più cupa,  man mano che la storia avanza, che Gatti imprime all'opera. L'attenzione ai dettagli, come le battute "A chi scrivevi? A te..." che ci danno forse l'unico eloquente spiraglio sul tono quotidiano dei due innamorati. Un cerchio soffocante rinchiuso su sé stesso che finisce solo con la morte. Una bella parafrasi del narcisismo di certe vite, problema ben presente ai giorni nostri. Quanto di più lontano anche qui dall'accumulo cinematografico zeffirelliano. Questa è una piccola storia borghese in interni, piuttosto squallida da ogni lato la si guardi. Una volta lo sfarzo si può accettare (e anche lì sarebbe sceverare tra Zeffirelli e Visconti, che non ho ovviamente potuto vedere direttamente), ma nel complesso snatura l'opera. Gatti fa anche completare le arie, come si è ripreso da qualche tempo e giustamente, nel rispetto del testo teatrale, quando c'è qualcuno che lo sappia recitare. Vedi il dramma struggente e nudo della seconda strofa di "Addio del passato", nessuna indulgenza al lirismo, nessun compiacimento, il teatro spoglio in primo piano, perciò tanto più vibrante.
Certo, Alfredo è Alfredo, cioè, malgrado tutti gli sforzi del direttore di suggerire altro, fa il tenore e io proprio non riesco ad ascoltarlo. Ma lo so, è una mia idiosincrasia.
Un'enorme tartina di foie gras. Un bicchiere di vino CSM che qui stanno lasciando inacidire.
Insomma una sera di piacere che cancella ogni seccatura :-).

Credo che vedere questa Traviata sia una gran bella esperienza.

lunedì 2 dicembre 2013

Perché non ho :- ( comprato un Ipad

Avevo tutte le migliori intenzioni quando ho varcato la porta del Icoso negozio nella galleria sotto il Louvre. Quella dove, a ben cercarli tra molta trascurabile paccottiglia e qualche splendore, ci sono ancora i torrioni dell'antica cinta medievale di Parigi, enormi e stabili, a sfidare le piccole luci da fiera dei nostri tempi con le loro tozze pietre gigantesche. E da dove si può entrare al Louvre direttamente nella - bellissima - piramide di Pei, guardando da sotto in su i grandi edifici della corte. Avevo la convinzione che sarei presto tornata, dopo la spiegazione di Florian, grazia francese nei modi spontaneamente sorridenti e garbati. Riusciva quasi a far dimenticare l'insopportabile gergo standard preteso dalle grandi catene, per cui ai clienti ci si deve rivolgere sempre nello stesso modo e con le stesse frasi, che pare di avere a che fare con una banda di robot stereotipati, cerimoniosi quanto falsi. Tanto più qui, dove in genere sono tutti già molto formali e gentili (con le dovute eccezioni e la non irrilevante personalità).

Non mi aveva trattenuta il pensiero che questo è un investimento che fa fuori praticamente il mio bilancio mensile.
Non un improvviso attacco di misoneismo per "l'ultimo ritrovato della tecnica", come una dirigente dei B.B. C.C. mi disse  mentre facevo un tirocinio nel 2001, con scherno per cotanta audacia innovatrice, quando proposi di passare una serie di immagini che avevano su dischetto, udite, udite, addirittura su un CD-ROM. (Il personaggio, di nobili origini, ma di men nobile arroganza, è ora, fortunatamente per tutti, in pensione.)
Non un improvviso rigurgito di impazienza per una grafica pupazzesca che trovo ai limiti dell'inguardabile.
Nemmeno il design dell'oggetto, ché bello è bello, ma sta diventando un tantino déjà vu, ecco.
Neanche i rischi per la poca discrezione spesso rimproverata ai marchingegni dell'azienda da cui proviene.
Né la scarsa simpatia che ispirano le condizioni di lavoro e di vita insostenibili, a quanto si dice, nelle ditte a cui viene subappaltata la costruzione dell'oggetto.
Non era neppure questione di ribellarsi all'impero delle multinazionali.
O un attacco di "decrescita felice", nella terribile declinazione pauperistico-passatista con cui viene propagata nelle patrie lande (e se qualcuno volesse saperne di più lo inviterei piuttosto a leggersi Serge Latouche che gli improbabili adepti nostrani).
No. Io lo v o l e v o! E lo sapevo.
Sarei passata sopra anche alla proverbiale chiusura proprietaria, che fa giustamente arrabbiare tanti fautori del software libero e condivisibile. Potendo.

Semplicemente, la mia schiena protestava, e ancora protesta, contro il sacco che le carico addosso: e che sia tirandomelo dietro per le vie di Parigi - o dovrei piuttosto dire le scale del métro? - o mettendolo in uno zaino, o in una borsa da pc, poco le importa. Strilla come se le pestassero ininterrottamente i muscoli con un martello. Cicli di fisioterapia poco hanno potuto, lì; allungamenti per altro molto benefici su un pallone, neppure: se solo provo a rimetterci un peso, lei si frantuma, e io solidalmente con lei. Al punto che non riesco neppur più a concentrarmi come vorrei.
E allora, il pensiero di avere in così poco peso, e con una magnifica tastiera lieve come una piuma a far da coperchio protettivo, computer, macchina fotografica  (la mia ha deciso di mettersi in sciopero giusto ieri, ma senza avanzare chiare rivendicazioni ahimè :-/ ) e autonomia fino a 10 ore, per cui niente peso aggiuntivo in cavi, durevole (si spera, sono stufa di buttar roba ogni tre anni, voi no?), mi aveva decisa.
Nelle mie intenzioni avrebbe dovuto essere uno strumento di lavoro. Gli veniva chiesto di prendere appunti, cioè file di qualche decina di migliaia di caratteri l'uno, impensabili da scrivere con i polpastrelli sullo schermo o le microtastiere pena l'attacco isterico, scattare qualche centinaio di foto di documenti redatti spesso a mano tre-cinque secoli fa (il che significa almeno la funzione "dettaglio" di una digitale perché siano leggibili e ingrandibili), portarsi obbedientemente tutto a casa, e consentirmi di vederlo e trasferirlo su schermi più grandi, uno suo fratellino e l'altro no. Allo stesso tempo, uno schermo di proporzioni tali da permettere di guardare e confrontare foto nel computer e documenti sul tavolo, e da scrivere e leggere senza troppa pena (lo schermo di un telefonino è un po' piccolo) e una tastiera conseguente.
Ma neppur per sogno.

Perché il mio tesoro a priori dovrebbe ancora sapersi servire del cordone ombelicale [leggasi: utilizzare per la trasmissione dati un banale e semplice cavo, dato che l'Ipad non permette l'uso di chiavi USB], ma in realtà pare che con questo mezzo non ci sia un modo evidente di passare immagini e soprattutto file di testo compatibili con i programmi usati dall'universo mondo senza problemi su un computer, e viceversa. Ovvero senza cercare se esiste un'applicazione a ciò deputata chissà dove, e saperla poi far funzionare. Cosa per la quale, sinceramente, non mi sento dopotutto così portata, né avrei modo e soprattutto tempo per svelare l'arcano da me (ché già mi hanno affibbiato un Excel che fa pena e io dovrei pure insegnargli a rispondere quando gli si parla, mentre il poverino ha gli input del linguaggio mescolati che neppure un minestrone: e anche lì, non so proprio dove mettere le mani per ridargli forma umana). Il fatto che il capo del pur gentilissimo Florian abbia rifiutato di lasciarci fare una prova di trasporto file via cavo persino su un loro fisso, non contribuiva certo a fugare i miei dubbi. Oltre a far misurare quanto poco simpaticamente siano gerarchizzati nei negozi Apple, malgrado gli sfoggi di commerciali sorrisi. E no, io non sono sempre online, anche se ormai "tutti hanno internet" e cambio paese e luogo di lavoro e abitazione ogni momento, e ho bisogno di non ritrovarmi a non poter usare un aggeggio che costa un occhio della testa perché la connessione è andata a ramengo, per n motivi, ovviamente nel solo momento in cui era indispensabile che ci fosse. Per non parlare dei costi aggiuntivi di impianto e abbonamento.
Nel  frattempo, con grande delusione di Florian, sono più ricca di 600 euro, o forse dovrei dire meno povera, essendo rimasti in buona sostanza dov'erano. Giro con un quaderno e una certa penna stilografica (eh, almeno), prendendo appunti e ringraziando di avere ancora le mani che funzionano. Quando proprio non posso fare a meno di portare Bianchino a spalla, come oggi, torno a casa che vorrei trovare un mattarello gigante a spianarmi come una sfoglia da tortellini.

Qualcosa mi dice che non può durare, però. In capo a qualche settimana gli appunti stanno crescendo, anzi lievitando più di un pandoro (chi mi legge, lo so, sa di cosa parlo...). Se qualcuno avesse un'idea, una scappatoia, una esperienza da raccontare, che mi riavvicinasse a una soluzione, parli ora e gliene sarà reso merito... io devo correre a stirarmi sul materasso, accidenti.

martedì 26 novembre 2013

Basta capirsi

In Francia, si sa, la météo è una religione. Ma dopotutto è un paese atlantico e variabilissimo in buona parte, almeno fino alla Loira, vero spartiacque climatico quanto culturale. Ma vi è già capitato di vedere i meterologi a una manifestazione? In Italia mai, mentre qui "Météo en colère" o "ça chauffe" sui loro striscioni sono dei classici.
Tuttavia non è che sian proprio al di sopra delle frontiere. Culturali, intendo. Per esempio, oggi per loro il tempo da queste parti era "un sept ensoleillé", intendendo con "sept" sette gradi Celsius. Dove l' "ensoleillé" al massimo dello splendore è stato quel che si vede sotto.
Chissà che ne avrebbe pensato Tiepolo.


P.S. uno dei due tipi che dicevo nel precedente post mi hanno anticipato, mi cita per un lavoro inedito. (Altre cose invece vanno meno bene.) Ma per noi pazzi, si sa, son sempre soddisfazioni. Ci voleva il sole ;-).

giovedì 21 novembre 2013

Le soleil, à Paris

Inizia tutto con una sorpresa. La luna. Tonda, piena, fa capolino dietro gli alberi scuri sull'Appennino. Mi sorride e io cammino al volante della mia Bianchina stracarica, ancora una volta paziente, che mi riporta in Francia. Paziente non del tutto, però: stavolta ha preteso di essere rimessa in piedi, e già che ci siamo, pure in grado di frenare. E ha mandato all'aria tutti i miei progetti di serate culturali a Parigi, con i conti delle sue visite mediche. Ma si sa, i piccoli vanno tenuti da conto e lei ha solo diciassette anni... e meno male che c'è.
Quella luna mi fa sentire partita, dopo le solite ore di discesa pacchi lungo le scale (nella mia casa romana non c'è ascensore) e caricamento sacchi. Sacchi, perché a furia di traslocare per emigrare ogni sei mesi, bando alle valigie, per quanto mi riguarda, e largo ai sacchi cinesi, ché per i nuovi migranti sono quanto di meglio dare si possa: leggeri, comprimibili, resistenti, a costo zero o quasi.
Finalmente le tristezze dietro le spalle, speriamo, e la tranquillità davanti. Per sei mesi. Sperando di tenere a bada l'inquietudine del ritorno che mai più non vorrei.
Arrivo da Stella, nella notte, dove un piatto pieno di squisitezze è sempre pronto per me, come un riparo per Bianchina. Chiacchiere a lungo, prima di sdraiarmi ai piedi del suo letto, perché in un monolocale con cucina come il suo due letti non ci stanno, no. Ma a 350 euro al mese, spese incluse non uno di più, di meglio non si trova, a Torino. E già per Roma sarebbe una reggia.
Riprendo a salire lungo la Val di Susa, verso il Fréjus.  Quest'anno niente controlli. Che li abbia presi nella controra, o che ci siano diversi ordini, non saprei dire. Ma l'anno scorso, non fosse stato per il mio bagagliaio stracolmo, mi avrebbero fatto svuotare l'automobile intera. Anche il passaggio del tunnel appare più semplice, con meno carte.
Di colpo vedo una bandiera francese. E io, la persona meno patriottica della terra, io che non inalbero la nazione come un simbolo, mi credo razionale e senza patria, provo un tuffo al cuore di felicità che mi stupisce, davanti a un pezzo di stoffa che per me è la libertà amata. Liberté... con quanto segue. E mi metto a cantare. Così passo il confine, sotto il monte.
Dall'altro lato del tunnel le rupi scoscese della Savoia. Le autostrade francesi, tutte curve e saliscendi, riposanti eppur monotone. Per la quarta volta percorro queste contrade: "Transmigra in montem sicut passer". תֹּאמְרוּ לְנַפְשִׁי; נודו צִפּוֹר Quel passer catulliano che s'infila nella penna di Gerolamo o chi per lui.

Uno svantaggio la Francia ce l'ha: il gpl è self service, e la mia automobile, catalizzata a posteriori,  ha un serbatoio assai piccolo. Quindi, quando corre a pieno carico, chiede la poppata ogni tre ore. Ora a me il self service dei carburanti pare una solenne estorsione ai danni del consumatore. Per infinitesimi centesimi in meno,  quando ci sono, si perde molto più tempo, si congela (in questa stagione) e non ci son più tutti quei piccoli servizi, come il controllo dei liquidi e la pulizia dei vetri. In compenso, i gestori delle pompe, che ormai sono tutti grandi gruppi, tagliano su sette o otto salari, prendono un semplice cassiere che serve anche al pessimo supermarket dell'autogrill, dove c'è sempre la fila, beninteso, e fan sostanziose economie sul costo del personale. A scapito nostro e della qualità del servizio, ovviamente. Ed evviva il profitto.
Comunque, sempre meglio la Francia dell'Italia, dove, semplicemente, da Torino al confine, di gpl proprio non se ne trova. Sparito, scomparso, inesistente nelle patrie lande. Ed evviva il privato, sempre efficiente.
Lione dietro le spalle e la lunga traversata del centro di Francia. I biscotti di Stella finiscono uno dietro l'altro. La fatica e la leggerezza di essere qui. Qualche cellula grigia ricomincia a funzionare: per la prima volta da sei mesi, penso. Al lavoro da fare, al come farlo. Mi vengono idee.
Quante volte nella mia vita sono scomparse, le idee che zampillavano dal mio cervello. Indizio infallibile di una situazione di oppressione. E poi rispuntate, in una situazione diversa, allentata.

Stanca, sempre più stanca, passo la barriera di Parigi. Si scende dai colli verso la grande città. E d'improvviso, di certo preparata dagli ingegneri, la sorpresa. Un faro spazza l'orizzonte. Lei, laggiù, oscura eppure visibile, monumento al metallo e al bullone, altro simbolo che mi fa sussultare.
Sono tornata, sono tornata a casa.
Davanti alla mia finestra, da quella notte, ci sarà un albero dalle dorate foglie dell'autunno. Pioggia gelida, sole timido, luna piena nell'aria secca e tagliente.
Parigi dove a ogni angolo ti occhieggiano manifesti. Corneille, Mozart, il Rinascimento, Molière e Lully (vedrò Psyché!!! dovessi poi vivere di aria per due mesi). Parigi dov'è spuntata una gru a fianco del Panthéon. Parigi dove nel métro occhieggia una pubblicità di linee aeree low cost abbastanza apertamente omosessuale. Dove sui sedili del métro qualcuno si prepara una baguette jambon-beurre e, già che c'è, aggiunge i cornichons. Dove per festeggiare la riapertura della biblioteca della Sorbona dopo tre anni di lavori si organizzano serate e visite. Parigi dove espongono manoscritti da perdere gli occhi tra Oriente e Occidente, Lumières de la sagesse. Parigi dove vai a fare una pratica e ti dicono, va bene, può passare anche fra qualche giorno, non c'è fretta, mentre nei corridoi ti accoglie la musica di Haendel . Ripenso alle file insensate della mia università e mi dico ancora una volta che siamo fuori dal mondo, da tutti i mondi.
Parigi dove troppa gente beve ahimé troppo, e i clochard, non sono solo colore, ma punta dell'iceberg di un problema sociale rimosso, secondo me. Parigi dove la prima riunione di lavoro è qui .
Incominceranno le nuove giornate, e gesti e parole, e non sbagliare, come diceva un vecchio romanzo. Qualche novità e qualche delusione (due pubblicazioni hanno anticipato le mie: è il mestiere malandrino, ma lì per lì, specie se sei "clandestino della ricerca", come dice Michela, non è facile tenere botta).
Se solo avessi tempo, più tempo... di vivere.
Sono felice.




Buona notte.

giovedì 7 novembre 2013

Propulsione a prosecco

Inutile negarlo: ci sono posti molto peggiori dove studiare di questa città da sempre cara.
Dopo 10 ore di archivio passate a decifrare francobolli imprescindibili per il felice avvenire dell'umanità, ti ritrovi in un bacaro con l'amica lontana ma vicina al cuore e alla vita che non vedi da anni. In piedi, accartocciate alle parole, piatto di tartine che ricordano le tapas di un tempo, quando la vidi in piedi davanti al mio poster e cominciammo a chiacchierare. Per tre giorni di fila, dai tetti delle cattedrali alle pasticcerie. Di studio e di vita. Cioè di quasi tutto, praticamente ;-).
Lacerti cinquecenteschi inaspettatamente loquaci, letture figurate, ricezione di Pinocchio nelle fiabe sonore, ombre, libri, "el zonta fa el anzel", processi, orari, burocrazia imbecille per definizione, bollicine, profughi istriani, baccalà, ancora bollicine si armonizzano davanti allo scuro canale veneziano. Il proprietario quasi non osa buttarci fuori (e per Venezia vuol dire tanto). Facciamo il giro della città due volte nella notte. Alfieri, Casanova e Goldoni fioriscono nei discorsi, le loro notti bianche piene di canti, l'equivalente dei cornetti di oggi nelle albe a Rialto dopo le ore spese nei casini dei piaceri. A testimonianza archeologica del Settecento ne rimane qualcuno semisconosciuto, oggi in città. Ma i cittadini sono partiti e tutto ormai chiude alle nove di sera: tempo per i veneziani di ritornare a Mestre... Qualche sbirciata in negozi di lane ben morbide. Il manoscritto dell'Histoire de ma vie l'ha comprato (ed esposto in mostra e digitalizzato perché tutti possano leggerlo liberamente) la Bibliothèque Nationale de France: quale migliore esempio della translatio studii?
L'ho sempre detto io: nessuna sostanza psicotropa darà mai un miglior trip della ricerca. Fantasia e rigore, libertà e consapevolezza. La vita, la libertà. (Video orrendo ma non si trova di meglio.)
Sono così felice di studiare qui che non vorrei più tornare.
P.S. il titolo è ovviamente scandalosamente ripreso da qui.
Ma domani alle 8,10 apre l'archivio. E' tempo di Morfeo.



venerdì 1 novembre 2013

Sul concetto di vacanze

Il collega che mi ha guardato con una sorta di tacita ammirazione e quasi simpatia nelle vicissitudini di questi dieci mesi m'incontra sulla porta l'ultimo giorno e mi fa: "Adesso tutte vacanze, eh."
Sì, forse, non so.
Nelle ultime 48 ore, quando ho preso due giorni di ferie non godute prima della partenza, ho totalizzato una media di tre medici al dì, tre anticamere d'altro genere risoltesi in nulla e scappate volanti in biblioteca per riuscire almeno a combinare qualcosa. Da lunedì mi aspettano altre 48 analoghe.

Domani alle 8 mi aspetta invece un'altra biblioteca, dove quando ho chiesto se fossero aperti questo sabato di ponte, un saggio alle mie spalle ha fatto eco neppure a voce tanto bassa: "Siete aperti domani 1 novembre?".
Già, perché non è mica facile capire che per chi lavora il sabato è l'unico giorno in cui puoi dedicarti allo studio in santa pace, come altri possono farlo con lo sport. O con la casa. Ovvio che poi vivi nel caos e non hai niente in frigo, si sa. (Meno male che ci sono le acciughe.)
Ma lasciamo andare.

La cosa più difficile da far comprendere è che il mio part time non è una vacanza. Che io torno dalla biblioteca alle 20.45 di sera, e mi attacco a internet fino alle ore piccole. Che studiare richiede una concentrazione che non molla mai, non può mai staccare, perché è come un fragile filo dentro la tua testa che connette e pensa, immagina e verifica. Che le idee son materiale delicato e insieme fragile e volatile, e se non le curi e segui quasi senza soste si spengono e si perdono. La cultura è una creatura morbida, diceva uno studioso, ed è vero sotto tanti aspetti.
Che la ricerca, quando si fa sul serio, e mentre si fa, è mestiere ascetico che non conosce pause, o la perdi, svanisce come un'ombra dell'Ade. Forse è diverso per chi fa ricerca sperimentale, perché c'è una parte di "manualità ripetitiva" ancorata a una serie di gesti da compiere che riportano a una dimensione fisica ineludibile e più facile da afferrare. Non so.
Che qualsiasi mestiere creativo ha un terribile bisogno delle rose. Marie Curie, quando, rimasta tragicamente vedova e dopo aver ricevuto un Nobel, ebbe finalmente i mezzi per costruire un "pavillon du radium" (esiste ancora a Parigi, piccolo e armonioso, e si può visitare), fece piantare, a lavori in corso, centinaia di rose tutt'attorno. "Ma zitti!" imponeva a collaboratori e operai: "non ho detto niente al signor Nénot, il contabile".

Che le vacanze per me non esistono o quasi, perché vivo con mezzi infinitesimali, grazie alla generosità di tanti e anche alla mortificazione di dover aiuto e riconscenza a chi avrei voluto solo ricambiare della sua stessa moneta. Posizione falsa.
Ma non ho neanche tempo, né forze, di pensarci.

Potrei dire che come intensità lavorativa le mie vacanze sono i mesi "di lavoro" in un'istituzione incapace di valorizzarmi pur avendo un bisogno estremo di personale qualificato (e fatti due conti senza falsa modestia dovrei essere tra il 5% dei più qualificati di tutta l'amministrazione, nel mio mestiere), ma che ha ancora più paura di toccare gli equilibri, tanto più se precari e malsani.
Quei mesi in cui qualcuno mi ha urlato in faccia e in pubblico, con l'indice puntato da scolaretta: "Tu stai qui e lavori!". E a me veniva da ridere.

Gli italiani hanno da sempre il grosso problema dell'ignoranza. Del timore, del sospetto e dell'invidia per chi sa, chi ama apprendere, vuole capire, conoscere, interpretare.
Quel che ho fatto io, anche altri potrebbero farlo. Ma non gliene importa. Però gli importa moltissimo sfogare in ogni modo il risentimento - o il senso di colpa e di inadeguatezza per essere disinteressati allo studio? - verso coloro che ci tengono, invece.
Che anche questi ultimi abbiano fatto rinunce, e assunto fatiche che loro non si sarebbero mai sobbarcati, non li sfiora. Che il lavoro non dovrebbe essere un bagno penale, e se lo diventa, invece di brontolare ci sarebbe da chiedere un'organizzazione diversa in maniera solidale, men che meno. Meglio uscire a fumarsi una sigaretta e fare il giro del palazzo venti volte in sette ore.

Davanti alla mia sorridente perplessità il collega si spiega meglio: "E' che non sei legata, lo scegli tu". Sì, lo scelgo io di gettarmi in questa assurda quanto indispensabile avventura.
La mia amica Michela, che ha vissuto una storia non troppo lontana da "clandestina della ricerca", come splendidamente si definisce, ha trovato anche per questo la definizione giusta: "alienazione volontaria".
E starebbe bene così.

Ma quando, come stamattina, mi sveglio all'incredibile sole di questo principio di novembre, e trovo che ho finalmente la forza di passare l'aspirapolvere nella mia minuscola casa, mentre prima doveva venire mia madre, non a farlo, ma a starmi vicino mentre lo facevo, o mi avrebbe trovata sepolta dalle ragnatele che nemmeno la bella addormentata, mi dico che qualche limite è stato davvero oltrepassato. Senza che me ne accorgessi.

Sì, sono felice di essere libera e di partire. Sì, mi lascerò tutto questo alle spalle con sollievo, per sei mesi. Ma non è normale, per arrivarci, essere ridotti così.

martedì 29 ottobre 2013

E qualcuno firmò

In tre per la precisione. A ciel sereno e inaspettatamente il mio periodo parigino è sopravvissuto per altri sei mesi. Poi, chissà.
Stordita e sollevata mi guardo intorno come una lumachina uscita dal guscio.
E mi preparo per partire.
Sperando di lasciare qui, e per sempre, il bagaglio di questi dieci mesi e un giorno (dal 28 dicembre 2012, per la precisione) di attese e ansie:
fame compulsiva e insoddisfacente, fino ai vasetti di acciughe svuotati alle 4 del mattino,
insonnia,
contratture muscolari dolorosissime, con conseguenti cicli di fisioterapia,
perdita dell'attenzione e della concentrazione (non parliamo della creatività e dell'ideazione di cose nuove),
stato d'ansia generalizzato,
pensieri ossessivi,
pianti,
irascibilità,
crisi di soffocamento,
incapacità di ascoltare i discorsi degli altri.

Una domanda, però, resta: a chi, a cosa, serve far lavorare la gente in questo modo? Quanto posso essere stata produttiva io in questi mesi? Non sarebbe stato più conveniente avermi al massimo e devota per sei mesi, che stravolta per sei mesi o un anno?

venerdì 4 ottobre 2013

Tamburi negli abissi

Vuoto. Vuoto.
Dopo tre mesi di traccheggiamenti e micro mosse, dopo otto mesi di miei tentativi disperati, ecco che ogni possibilità di ottenere il ritorno in Francia naufraga per motivi che non si riesce a chiarire, sostanzialmente per l'insipienza di concepire una organizzazione del lavoro meno ottusa, indifferente, sprecona. Sprecona delle persone, delle loro capacità, delle opportunità che potrebbero dare non solo con le loro conoscenze, competenze, ma anche con le loro speranze, desideri, emozioni bisognosi di concretizzarsi in risultati, opportunità, vivacità, vita.
Questo è il vero spreco del pubblico impiego, che lo si dica, una volta per tutte. Questo è ciò che fa parlare e soprattutto straparlare di "privilegio ai fannulloni". E che non si risolverà certo con i licenziamenti facili, ma con una diversa selezione e formazione della dirigenza (peraltro sempre più pagata), oltre che fermando i tagli insensati di una ideologia criminale come quella liberista al potere.
Non riesco ancora a realizzare che sarà veramente così. Che dovrò perdere tutto ciò che avevo cominciato, che non finirò i miei studi, i miei libri, perché non posso portarmi qui archivi interi, né biblioteche intere, né farmele fotografare, né tenere relazioni, né seguire corsi o altro, né farmi scappate saltuarie con ferie di cui tre settimane sono già impegnate per obbligo, specie poi con i salari che abbiamo.
Che dovrò dire ai miei professori che sono la solita italiana cialtrona che pianta le cose a metà.
Che davvero dovrò continuare a vegetare passando fatture, e basta.
Vuoto, vuoto. Vuoto.
"Tamburi, tamburi negli abissi".


giovedì 1 agosto 2013

Abendstern

Periodo noioso e incerto, ansiogeno: ancora lotte e lotte per poter tornare nel mio pays de coeur, senza che se ne veda la fine. Una giornata stancante, del tempo rubato per rifugiarsi nel giardino di un'abbazia fuori dal tempo


Immagine dal sito Ilfaroonline.it. Grazie!

(ma ben nota alle zanzare) a guardare la luce dell'estate sui mattoni rossi e il cielo smaltato. Pare quasi di essere tornati alla mia terra d'origine, con quei colori.
Un'aria nella testa: ascoltata una volta in un magnifico film da bambina e mai dimenticata.
Tornare a casa, accendere la poderosa radio dei miei, scoprire che questa sera la fanno, proprio sotto le mie orecchie.


 Canta Dietrich Fischer-Dieskau, ovviamente

P.S.: A me la contestatissima direzione Petrenko del Ring des Nibelungen di Bayreuth è piaciuta. Sarà anche mancato il "colore wagneriano", espressione vaga quanto mai, ma per la prima volta sono riuscita a ascoltare Wagner per ore e ore senza avere la sensazione di star compiendo un penoso dovere...
A parte l'aria in questione, invece, trovo il Tannhauser di stasera decisamente un po' troppo fragoroso.
Mi piacerà un Wagner in bianco e nero?

Aggiornamento: mentre mi trastullavo con le stelle, qualcuno lavorava.
In camera di consiglio.
 :-P

domenica 14 luglio 2013

SENZA COMMENTI

"

“I tumori? Macché Ilva, la colpa è di tabacco e alcol”

Parola di Enrico Bondi, ex amministratore ILVA per conto della famiglia Riva, ora commissario dell'azienda.

Quando ho scritto questo post evidentemente non avevo ben chiaro fino a che limite la realtà potesse ancora superare la fantasia.

  Ma davvero ci fidiamo ad affidare l'economia del nostro paese a personaggi del genere?

venerdì 12 luglio 2013

La macchina rossa

Non ce ne son più molte in giro così, ormai. Sono passati quasi quindici anni. Ma quando ne vedo passare una superstite, come ieri sera, l'istinto è sempre quello di slanciarmi dentro. E partire ancora una volta, per un lungo viaggio pieno di chiacchiere nella notte. Mi manca.
Fili che il nostro cervello mai non rompe.

giovedì 11 luglio 2013

Il lato sciatto del padrone

“Attenzione, appello urgente: chi è venuto oggi al lavoro con la sua macchina è pregato di consegnarne le chiavi all’ufficio personale. Abbiamo bisogno delle vostre batterie per far ripartire il sistema di raffreddamento. In attesa che arrivino quelle nuove, chiedo anche che vengano consegnate tutte le pile, di qualsiasi formato, in vostro possesso. Ci potrebbero servire. E siccome dobbiamo mandare qualcuno a comprarne di nuove in città, chiederei anche di volerci prestare del cash. Al momento, in cassa non ne abbiamo. Grazie per la collaborazione ”.

Contro la catastrofe nucleare grazie alle batterie delle utilitarie degli operai del reattore. Secondo questo articolo quando l'impianto di raffreddamento a Fukushima non si riavviava dopo  lo tsunami il direttore della centrale, oggi morto di cancro, avrebbe chiesto aiuto agli operai per farlo ripartire grazie alle batterie delle loro automobili.
I dirigenti della Tepco, l'azienda privata cui appartiene Fukushima, avevano deciso di comune accordo di non rinforzare le protezioni antitsunami come "consigliato" ma non imposto dalla legge: costavano.

Per restare nel campo dell'energia, questo ricorda la nostrana storia del Vajont, quando un bacino di centrale idroelettrica costruito ai piedi di una frana di 260 milioni di metri cubi fu riempito in tutta fretta malgrado i segnali di rischio perché bisognava vendere l'impianto allo Stato, e più era pieno, più ci si sarebbe guadagnato. Su questa vicenda è stato scritto molto e rimane straordinario e documentato racconto visivo quello di Marco Paolini.

Ma viene da ricordare anche l'acciaieria Thyssen dove i sistemi di sicurezza furono lasciati andare perché l'impianto avrebbe presto chiuso; e la sicurezza degli operai era divenuto un costo da comprimere. Confidando nella fortuna. Salvo poi dare la colpa agli operai quando l'incidente mortale si verificò.
"Era diventato assolutamente normale che persone, ignare dei veri rischi e senza alcuna formazione anticendio, si sobbarcassero il compito di affrontare le fiamme con mezzi inidonei (estintori a corta gittata, con estinguente non adeguato alla combustione della carta, e comunque inefficace perchè non sedò il focolaio) e con il divieto di chiamare i vigili del fuoco, ma di risalire una gerarchia di segnalazioni attraverso telefoni da tempo rotti e anelli mancati per sovrapposizione di mansioni”. Secondo i giudici “era cioè diventato normale per la dirigenza aspettarsi da loro che superassero le remore di autoprotezione minimali per chiunque e che si esponessero così a rischi che solo la dirigenza conosceva e contribuiva a mantenere" (dalla motivazione della sentenza di appello).

Anche in Giappone, come altrove, gli operai che fanno la manutenzione delle centrali nucleari sono ovviamente considerati "un costo". Lavorano ad alto rischio, e per scongiurare il più possible le malattie professionali dovrebbero alternare lunghi periodi di riposo, retribuiti dalle aziende, con quelli di lavoro. Ma è un costo: e le aziende risolvono la cosa facendo dei contratti a termine, della durata del periodo legale di lavoro, ma che, udite udite, possono essere rinnovati immediatamente purché si cambi di centrale nucleare, evitando così di remunerare il previsto periodo di riposo, in cui si suppone chi lavora dovrebbe vivere d'aria.

"Il meccanismo è quello del subappalto. Questi lavoratori sono giapponesi poveri che vengono assunti per fare le pulizie da ditte che hanno il subappalto del subappalto. Quando vanno a lavorare hanno delle targhette per segnalare le radiazioni a cui sono esposti. Dopo un certo limite, dovrebbero smettere di lavorare. Invece vengono mandati in un'altra centrale a fare lo stesso mestiere. Sono loro stessi a volerlo, spesso cambiano addirittura nome, tanto non c'è il sindacato che controlla e un sistema di protezioni per il lavoratore. Assumono dieci volte le radiazioni consentite. Se si ammalano, nessuno li ha mai visti né conosciuti. Sono migliaia. Quelli che si prendono il cancro e hanno il coraggio di denunciare si riducono ad alcune decine.
C'è rimozione, sì, perché tutto deve funzionare bene, secondo armonia. Adesso però vediamo che conseguenze determinerà quest'ultima catastrofe."

Altri particolari qui e qui.

Non solo. Gli stessi lavoratori che oggi eseguono la bonifica del sito operano in condizioni precarie che aumentano il rischio. Si parla di dosimentri delle radiazioni truccati. Per tacere dei vigili del fuoco che si dovette mandare più o meno alla morte nel momento dell'incidente da parte del governo giapponese.

Ecco perché sarebbe molto meglio che il settore energia fosse e restasse in mani pubbliche; che non avessero di mira il profitto privato, ma la fornitura, a condizioni degne, di un servizio indispensabile a tutti.

domenica 30 giugno 2013

Nella casa delle rose

La prima fu lei, naturalmente. A proporre di incontrarsi. E poi a raccontarlo in un paio di memorabili e vellutati post, per cui ancora non ci sono parole.
Non fu l'ultima, altri incontri si aggiunsero. Fino a quel messaggio di posta elettronica quindici giorni fa: "Noi siamo nella casetta gialla per tutta la settimana: ti aspettiamo", in cui una foodblogger lombarda apriva le porte di casa e della sua famiglia a un'altra sconosciuta lombarda (di origine se non di stanza). E quale casa: la casa del cuore, direbbero i Francesi, arrampicata a mezza costa di una stretta valle sui monti biellesi, dalla porta avvoltolata di rose e dentro il lavoro di qualche lustro per renderla propria, per custodirla e restituirla a nuova vita, dal tetto, coperto di nuove elegantissime tegole fatte all'antica, alla cantina, trasformata in serra.


Aprire le porte, trattandosi di Nora, non è metafora esagerata. Lo stile della sua accoglienza non si è smentito mai, a partire dall'aplomb con cui ha incassato l'annuncio dell'orario impossibile in cui li avrei tirati giù dai boschi per venire a raccogliermi alla stazione di Biella: "Bene. Verremo", ha replicato senza batter ciglio: "Avrò in mano una rosa del mio giardino". Nulla del resto la descrive meglio della citazione che ha messo in testa al suo blog, sotto la pianta di glicine.


Per non parlare del programma del loro w-e rifatto a partire dalla mia visita. E della poesia di benvenuto.


E delle rose sul comodino.



E della polenta di Storo, il paese alle porte del mio amato Trentino, lì pronta e inaspettata sulla griglia ad accogliermi all'arrivo.



Della gentilezza dei suoi xy, come li chiama lei, che le ruotano intorno, pazienti e sorridenti.
Degli xenia, i doni ospitali con cui sono ripartita.
Delle due insalate, tema della sfida del mese, generose, ricche, come tutti i suoi piatti, che mi ha dedicato sul blog questa settimana. Delle sue ricette ho sempre apprezzato la compenetrazione con una tradizione, quella lombarda e nordica, rivista e sviluppata con amore e affetto e pienezza, senza lambiccamenti come senza casalinga routine.
Delle notti passate a parlare fino a mezzanotte, e poi a impastare e cuocere fino nel cuore delle ore del silenzio.


 Ho ricevuto una lezione sul campo di impasto pane a mano.

E abbiamo raccolto fragoline per ogni dove.



Quanto a me ho sfacciatamente e irruentemente, secondo mio solito, saccheggiato madia, dispensa, giardino delle erbe,


sbafandomi entusiasta una crostata ai fichi intera - io che non mangio crostate, ma questa sì!!! e lo stufato di asino alla fiera di Veglio sotto una luna piena inverosimile, dicendo, come mio solito, la mia su ogni questione.

  Li ho trascinati a zonzo per boschi e prati pieni di frescura e di luce, dove all'improvviso due caprioli hanno fatto capolino correndoci accanto in tutta la loro grazia. Uno era timido: si è subito nascosto nel folto. L'altro aveva voglia di giocare. Forse a nascondino, come fanno i bambini piccoli. Si è rintanato dietro un gruppo di tronchi ma non è scappato. E' rimasto lì ad osservare il nostro gruppo, allungando curioso la testolina tra i rami.




I tetti di Camandona.


La notte, nel grande letto, una volta spenta la candela, (per me non c'è modo più bello di andare a dormire che farlo a lume di candela, lo facevo sempre nella nostra casa di montagna), la finestra restava aperta, e ritrovavo il profumo dei boschi. La luna piena sul letto.



La chiesa di Veglio, un tripudio di colori e stucchi tardo-cinquecenteschi, un inno iconografico alla Controriforma (queste contrade erano percorse frequentemente dal cardinale di manzoniana memoria) da studiare riquadro per riquadro, nella sua insolita vivacità.

Così abbiamo dato il benvenuto al solstizio d'estate.

Dandoci forse appuntamento nel cuore dell'estate, ai Miracoli, chissà.

 
Gli XY in passeggiata:
Come prendere le misure alle fontane (XY n. 1)


"Una porta veramente ben sistemata, ecco!" (XY n. 2).



 XX.



E, ovviamente, ancora le rose.

lunedì 24 giugno 2013

Interdizione perpetua

Grande I L D A!!!!!!

martedì 18 giugno 2013

Latinorum

Al momento, invece di due lavori, ne faccio uno (a tempo pieno, però). Uno solo, fino a Ferragosto, ho deciso. Dopo, ricomincerò a farne due, perché questo lavoro soddisfazioni, no, non me ne dà. Puramente alimentare, come dicono lassù. Devo cercarne altrove.
Così adesso ho tempo per (piccoli) gesti gratuiti. Per esempio, dopo infinito tempo, ho tempo per provare a tradurre una poesia in latino, piovutami sul tavolo.

Faune, Nympharum fugientum amator,
per meos finis et aprica rura
lenis incedas abeasque parvis
 aequus alumnis,
si tener pleno cadit haedus anno,
larga nec desunt Veneris sodali
vina craterae, vetus ara multo
 fumat odore.
Ludit herboso pecus omne campo,
cum tibi Nonae redeunt Decembres;
festus in pratis vacat otioso
 cum bove pagus;
inter audacis lupus errat agnos;
spargit agrestis tibi silva frondis;
gaudet invisam pepulisse fossor
 ter pede terram.

E' come fare un puzzle; e se senza dizionario il significato di tre o quattro parole mi sfugge ancora, il quadro si rimette insieme, l'atmosfera antica e rustica voluta dal più raffinato dei poeti risorge. Mi piacerebbe ricordarmi meglio la metrica, decifrare ancor oggi la musicalità di questo antico canto.
Soprattutto è il piacere di fermarsi a godere qualcosa di bello: giocare, senz'altra ragione che la voglia, nessun dovere.

P.S.: Orazio, Odi, III, 18.
P.P.S.: siccome il mio cervello non sa stare fermo, eccolo lì a suggerirmi che forse forse qualcosa in questa poesia se l'è ricordata Leopardi. Cellule, basta, adesso.

sabato 15 giugno 2013

Gusti: al ritorno da una sera di quasi estate

Ora, premesso che sono di gusti difficili, e che per me ogni genere apparso dopo Rock around the clock è semplicemente imballabile (eccetto Goran Bregovic), un uomo che non ti porta a ballare è un uomo inutile.
Ecco.








Postilla: sette anni fa nella mia vita c'è stato un terremoto. Difficile trovare risvolti positivi in questo avvenimento. A parte un dettaglio: sono sparite dalla mia vita le noiosissime cosiddette feste. Non quelle natalizie che a me non han mai dato particolarmente fastidio. No, parlo di quelle ammucchiate eterogenee di persone incongrue in mezzo metro quadrato, con colonna sonora sovrastante qualsiasi interazione non urlata, cui spesso si viene invitati per far numero, ognuno resta nel suo gruppetto e raramente si va oltre. Essendo fuori moda, per me il numero della compagnia ideale resta sempre tra quello delle Grazie e quello delle Muse, preferibilmente seduti a tavola. In Francia una cosa piacevole delle feste sono il cercle (tutti si siedono in circolo e si gioca a parlare con entrambi i vicini), e il fatto che quasi tutti conoscano attivamente la musica, per cui è raro che a un certo punto non si canti o non si suoni tutti insieme. Francofila come sono, mi fa sempre effetto sentirli cantare in coro canzoni storiche di questa terra, di quelle che si direbbero esistere solo nei dischi o nei film e che invece fanno davvero parte di loro. Sempre intonati, all'unisono e senza urlare (non come i nostri strazianti stornelli).


venerdì 14 giugno 2013

Les bienséances

Ahhhh...
"Fais ce que tu dois, advienne qui pourra."
P.-G.B.

venerdì 31 maggio 2013

Lettura, e libri

Mi sto sbellicando.


Immagine da wikipedia versione inglese, con mille ringraziamenti


D'accordo, non che sia la cosa più delicata da dire quando si hanno per le mani le guerre di un mezzo secolo, europee ed extra, ma è così.

 (enoncapiscochemaledettamaniahannotuttiultimamente di rendere incaricabili le immagini, accidenti. Meno male che wikipedia esiste - e resiste).

Se foste prigionieri, cosa fareste? Tentereste di evadere, naturalmente. E se vi dicessero che, passati indenni tra leopardi, bufali e serpenti dovreste comunque camminare per migliaia di miglia prima di arrivare al sicuro in terra amica, rinuncereste? Sì??? Ma come, quando c'è una f a v o l o s a montagna (quella lassù, ovviamente), che vi si para davanti agli occhi tutte le mattine al risveglio nella scalcinata baracca di prigionieri senza nemmeno una biblioteca, dove avete già letto la carta stampata che girava, persino le briciole, ricercate con avidità da tutti e passate di mano in mano, non andreste almeno a darle un'occhiata più da vicino? Piuttosto che passare le giornate nell'inerzia e nella noia, insomma.

Io sì, anche solo al vederla, la montagna, non sognerei che di trovare i compagni adatti a una simile impresa, pur se prigioniera non sono, anzi apprezzo il mio materasso in lattice per diverse ore tutti i giorni. Perché è vero che mi faccio trekking semplici semplici in solitaria (esempio da non seguire, lettori e lettrici), ma per un'ascensione in quelle condizioni i compagni ci vogliono. Oltre che per prudenza, fa parte del gioco beffare le guardie insieme.

Questo libro - perché quel che dichiaravo di tenere fra le mani metaforicamente poco più su è materialmente raccolto in un libro - fa la storia dei tre uomini che tentarono l'impresa. Non la storia dell'impresa (quella l'ha già scritta uno di loro), ma la loro biografia precedente e successiva, e così facendo attraversa l'Europa e una parte dell'Africa della prima metà del secolo scorso, che di guerre e massacri non s'è privata, ragionevolemente parlando. Cosa e come li aveva fatti crescere con quei desideri e quelle capacità? Come erano arrivati nel campo di prigionia? Cosa li spinse ad andare sul monte, e cosa fecero della loro vita una volta ridiscesi? Insomma: vivaddio non è un libro intimista. Non è il solito inflazionato libro da ambiente urbano di trentenni, ops quarantenni in crisi, così comodo per scongiurare con la lettura qualsiasi rischio di prender l'iniziativa e cambiare la propria vita. Non se ne poteva più! Qui entra l'aria, la luce, la gioia di essere vivi, di fare qualcosa perché ti va, di andare laggiù perché è là, anche quando è folle, soprattutto perché è folle, soprattutto perché non te lo impone nessun dover essere, soprattutto perché non si deve per regole che non ti rappresentano, che non hai mai scelto né voluto. Qui entra il ragionamento sul passato per capire il presente, il filo delle cause anziché lo sbalordimento epidermico e inconsapevole degli effetti, la coscienza e la conoscenza, lo studio ed il confronto. Qui rido, fremo dalla voglia di partire, e li capisco nella voglia di cammino e nella felicità di scrivere oggi una simile storia. Nella loro vita sotto la dittatura, no, non posso capire. Questo anche cerca di indagare il libro, il crinale tra l'essere complici e l'essere contro, in cui soltanto pochi riescono a seguire una linea retta senza mai distogliersene.

Ma se poi, tornati indietro, riusciste a scrivere un libro che narra tutta la storia dell'ascensione, come hanno fatto appunto i tre prigionieri alpinisti, e questo libro diventasse un classico nello stesso paese che vi teneva (a livello collettivo non senza motivo), prigionieri, non sarebbe la più bella affermazione di intelligenza e di libertà?

Mi diverto come una pazza. Anche se si già come va a finire :-)

P.S.: pare che il film usa tratto dal libro di Benuzzi sia totalmente mistificato e non abbia nulla del "real-life" che proclama.



martedì 14 maggio 2013

La banalità del male

Neanche 18 anni e così tanta voglia di vivere da gettarsi sul selciato di un cortile in una sera del più radioso maggio che il secolo e i decenni ricordino, cielo di seta azzurra e sole che smalta i colori. Così ha deciso un bimbo dalle guance pienotte accompagnate da un grande, dolce sorriso, un po' stupito e incerto di fronte al mondo, come a volte gli adolescenti regalano, e dai grandi occhiali. Uno sguardo che non credo di avere mai incrociato.
L'altra mattina, uscendo di casa per andare al lavoro, incrocio invece un poliziotto, giovane e gentile, attento. Sta uscendo dall'appartamento di fronte. "Ha cinque minuti? Accetta di rispondere? Sa, è per quel ragazzino che si è buttato ieri sera, è morto. Era minorenne...". La fretta mattutina scompare, e piegati sul buffet - nel mio appartamento minuscolo regna sovrano l'ordine del trasloco - tentiamo di ricostruire cosa facessi la sera prima tra le 7 e le 8. Dormicchiavo probabilmente, recuperando l'alzataccia lavorativa, circondata dai romanzi che avevano avuto la meglio sui più ragionevoli tomi di studio.
"Ha sentito grida, liti?", mi chiede, mentre non so cosa rispondergli. Abito dall'altro lato del palazzo.   Assente per tanti mesi non posso nemmeno riportare se vi fossero discussioni abituali. Una voce giovane e fresca ha veramente penetrato con un grido, uno solo, non angosciato, quasi sorpreso, il dormiveglia, strappandomi al sonno?  Per tutta la giornata me lo chiedo. Tonfi no, quello di certo. Le sirene che ho sentito, pensando fossero di passaggio, erano per lui? o non era ieri? Per tutta la giornata me lo chiedo, sbigottita di me stessa, sentendomi idiota, sorda e cieca.
"Sincero, allegro e solare" lascia scritto un suo amico mentre sul pavimento del cortile si accumulano fiori, fogli di carta pieni di foto, candele, pacchetti di pavesini e Buondì Motta. Appesi tutt'intorno striscioni e una bandiera della Roma con il saluto scanzonato e affettuoso di un amico milanista. Ma la frase che mi annoda lo stomaco è un'altra, riferita a una foto infantile: "Anche senza denti il tuo sorriso è bellissimo".
L'unica frase che mi viene in mente, del tutto fuori contesto, è: "Si muore perché si è soli, o perché si è entrati in un gioco troppo grande."
Che si tratti delle mani armate, compiacentemente armate, dei mafiosi, o della solitudine infinita e disperata di tanti, troppi suicidi.
Quando a volte chissà, basterebbe essere "visti", basterebbe una parola gentile, una carezza sentita e delicata, un gesto di premura e di calore, a far sentire meno soli, a maggio.

venerdì 26 aprile 2013

Adesso

Adesso che sai che tutto è andato male, che tu e il tuo lavoro siete buoni ma non abbastanza per sceglierti, adesso che una buona parte del tuo lavoro di lungo periodo va rifatta (ma questo lo sapevi già prima che te lo dicessero, anzi il problema era che nessuno te lo dicesse!), per poter essere ripresentata, adesso che non hai neanche più energie, ma tremi e temi soprattutto di non poter più tornare qui per dedicarti a tutto questo, a fare la ricerca che in Italia ti è impossibile, adesso che ti dici che sei davvero troppo vecchia per poter sperare un futuro diverso, adesso che è sempre più evidente che non riuscirai mai a dare unità alla tua vita, ma ciò che ami fare non puoi perderlo pena lo spaccare te stessa come farebbe un colpo di spada dal cervello all'inguine, adesso che qui tutto è in fiore con la forza infinita della primavera del nord e i fiori si rinfrescano appena cade la pioggia lieve e vaporosa, adesso che i tuoi sei mesi di Persefone sulla terra sono terminati e devi risprofondare negli Inferi, forse per sempre, mentre intorno la primavera si scatena nei suoi colori, adesso...
Adesso voglio riposare. Smettere di andare in giro carica di zaini e borse che mi hanno stroncato la schiena con contratture dolorose, smettere di non riuscire mai a staccarmi dal lavoro senza starci male, smettere di correre ogni singolo minuto, di assorbire tanti concetti al punto di non sapere più dove metterli dentro al cervello. Voglio docce calde, lenzuola profumate, vestiti accuratamente scelti, vagabondaggi senza un perché.
Voglio un'estate ridente.
Voglio meditare su una cosa alla volta, nei miei studi, tranquillamente, con soddisfazione e attenzione.
Parigi non è mai stata così bella come in questi ultimi giorni di aprile. Ma Saint-Germain l'Auxerrois ha battuto i suoi colpi. Ora è il momento dei pianti.
Cosa accadrà dopo, dopo che avrò potuto un po' rifiatare? Nessuno lo sa.
Tutto sommato, quasi meglio. Quel dossier era interessante, ma mi avrebbe portato su una strada lunghissima, che soprattutto non sentivo totalmente mia, e in più estremamente rischiosa. Però alla fine quella strada, se fossi arrivata fino in fondo, avrebbe potuto farmi lasciare l'Italia, a ottime condizioni (per noi).
Il fatto è che ora non vedo nessuna alternativa al procedere con le mie sole forze, una minima appartenenza e uno stipendio da part time. Sempre ammesso che mi permettano di ripartire fin qui. E in questo caso, quanto potrò durare, quanto potrò dimezzarmi i già scarsi contributi?
Ma i miei magnifici 4 che forse sono 5, quelli, sia pur con le mie forze, li voglio finire. Prima di svanire.
Dovesse essere l'ultima cosa che faccio in vita mia. Speriamo che tutto tenga duro fino a che non vedranno la luce.
Oltre, non riesco a vedere.

Le rose di Venezia




Oggi, 25 aprile, a Venezia si usa regalare una rosa rossa alle donne. Un’usanza molto galante e che sposerei volentieri. Adoro ricevere fiori, e molto banalmente le rose mi piacciono sempre. Ma per concentrarsi sulle donne e non sulle rose, dato che non sono nell’amata Venezia – anzi chissà quando la rivedrò - e difficilmente qualcuno mi regalerà un fiore, a quali donne ipoteticamente porterei io, oggi, la mia rosa rossa in segno di omaggio?
Quali donne? Quali modelli o sogni femminili posso dire di aver avuto nella mia vita? In genere mi sono identificata, con tutte le megalomanie fantasmatiche del caso, sia con donne che con uomini. Soprattutto da bambina non c’era per me differenza. I personaggi femminili delle storie o dei libri spesso mi annoiavano perché non facevano nulla di interessante. Gli uomini, invece, vivevano le avventure e lì c’era da divertirsi.
Oggi mi viene in mente una personalissima lista assolutamente disordinata e squilibrata, con personaggi che cozzano gli uni con gli altri nell’essere totalmente diseguali e diversi in tutto.
Da piccola senz’altro le mie donne modello furono immaginarie. Pallade Atena, così intraprendente e attiva, Brunilde, la cavaliera fiera e coraggiosa che sfidava il padre, i più forti e i prepotenti e giocava con quella strana cosa che si chiama amore che non capivo ma mi turbava e m’intrigava languidamente, la salgariana Jolanda che cacciava da sola i lamantini e metteva in fuga i giaguari a colpi di tizzoni ardenti mentre l’uomo di turno giaceva riverso delirando per la febbre. Ginevra e Morgana, così celticamente strane per chi era cresciuta a miti greci come la sottoscritta, mi appassionavano entrambe. Le principesse tipo, invece, le trovavo assolutamente sbiadite – e mute, figurarsi per una logorroica già tutt’altro che in potenza che ispirazione potevano essere. Mi annoiavano a morte le donne dei romanzi di Jules Verne definite capaci di “sforzi eroici” perché camminavano qualche lega come i loro compagni: ma dov’è l’eroismo? mi chiedevo senza capire, rigirando il libro da tutte le parti quasi a volergli carpire il suo segreto, io che in famiglia non avevo nemmeno la macchina, figurarsi il motorino: autobus e gambe erano i soli mezzi dei miei spostamenti. Se pensavo a un comportamento da eroe quel che mi veniva in mente era immediatamente Achille. Per il resto poi costoro non facevano che piangere, tremare, pregare e occuparsi dei figli. Una barba. Non sapevo allora come fossero allevate le donne dell’epoca vittoriana, le borghesi beninteso, perché dalle operaie e dalle contadine ci si aspettavano quindici ore di lavoro al giorno fin da bambine e poche proteste, anzi, nessuna. Tre libri hanno raccontato ben vividamente questo mondo: due di Thomas Hardy, ovviamente Tess dei d’Urberville per il lavoro rurale, poi il meno conosciuto ma a mio parere importantissimo Jude l’oscuro, centrato sulla mentalità e il ruolo femminile nei rapporti fra i sessi e sulle aspirazioni alla cultura da parte di un artigiano venuto dal mondo contadino; terzo in questa parziale lista La donna del tenente francese di John Fowles (al solito niente a che vedere con il brutto film omonimo) sulle differenze fra la vita dei diversi strati sociali: servi, borghesi e se vogliamo le intellettuali in potenza.
In quel volgere di anni però arrivavano anche le donne in carne e ossa a trarci fuori finalmente dalle stecche di balena, giustamente relegate oggi al ruolo più confacente di giocattoli galanti. Le biografie mi hanno sempre incantato, anche al di là della comprensione e della adesione alle attività o alle idee dei personaggi ritratti. A far da transizione tra l’immaginario e il reale metterei allora Elisabetta I Tudor. Per carità non quella “I’m married with England” del film di Shekhar Kapur con la sua fine disumanizzante, infarcito di svarioni e cadute di stile caricaturali. No, la sovrana che parlava quattro lingue e suonava il liuto, danzava e faceva danzare ministri, favoriti, colleghi di mezz’Europa, amava il teatro, batteva l’Invincible Armada salvando il suo paese grazie a piccole navi veloci, iniziava a costruire un impero, cercava la pace confessionale dopo il regno sanguinario della sorellastra Maria; certo un mezzo personaggio da romanzo. Quella che Stephen Zweig (uomo di una stagione maschilista se mai ve ne furono) non capì e mutilò, perché una donna simile ai suoi occhi non poteva essere regina e maneggiare il potere pur restando donna e amante, e anche senz’essere madre. Come se una donna che veniva da quella simpatica famigliola allargata che fu la corte di Enrico VIII non avesse ottimi motivi per non volersi mai e poi mai dare un padrone sotto forma di marito…
La mia preferita? Marie Sklodowska Curie, per la capacità di lavoro, di passione, di inventiva con cui seguì la sua strada, la strada della ricerca, contro il suo sesso, la sua età, la sua nazionalità (la Polonia non permetteva alle donne di andare all’università), la povertà, la solitudine, i circoli accademici, il perbenismo che non le perdonava, da vedova, la relazione con un uomo sposato (cui ovviamente nulla era richiesto), fino a minacciarla di toglierle la cattedra. Un genio, una donna impavida, coraggiosa, generosa, priva di superbia come le persone veramente sapienti, capace di vincere due premi Nobel in due diverse discipline (fisica e poi chimica, credo tutt’ora un record) come di dare lezioni ai ragazzini delle scuole medie, che se ne andò per tutti i fronti franco-tedeschi della Grande guerra, allestendo quasi da sola sale di radiologia per la cura dei feriti. Basta, perché su di lei potrei dilungarmi per chilometri.
Simone de Beauvoir fu l’eroina della mia adolescenza. Intanto perché raccontava sé stessa; e le autobiografie e le biografie mi attraggono come l’orso il miele: intingo la mano nelle pagine come fossero un vasetto dorato e profumato per poi succhiare le dita fino a trovarne il fondo. Poi perché il mondo scapigliato che evocava m’incuriosiva infinitamente. Una famiglia francese del primo Novecento, Parigi, il mondo, la lettura, la letteratura, il teatro, il jazz: il mio raggio visivo si allargava con il suo, i personaggi e la storia divenivano vivi grazie al suo racconto e al suo sguardo. Ancora oggi trovo più facile accostarmi a un momento storico attraverso i racconti dei contemporanei piuttosto che con un eruditissimo studio speculativo, quello in genere viene dopo. Anche il femminismo USA le deve molto: il citatissimo La mistica della femminilità di Bettie Friedan sarebbe impensabile senza Il secondo sesso, straordinario tentativo di definizione delle donne, viste come “altro” dal sesso opposto, attraverso la ricostruzione e l’analisi delle fasi della vita femminile come dei miti cucitile addosso.
Rosa Luxemburg. Non conosco un decimo del suo pensiero, ma ecco un’altra polacca di quella generazione tra i due secoli che dovette essere ben fertile. Fu una delle prime donne di cui abbiamo ricordo a fare attività giornalistica e politica, pratica e teorica insieme, ad alto livello. Una di quelle persone che parlano cinque lingue, scrivono un trattato di politica o di teoria economica o finanziaria, un pezzo scorrevole, organizzano una manifestazione, uno sciopero, un partito o prendono parte a una rivolta con la stessa agilità, profondità ed energia. Rivoluzionaria e insieme contraria all’inutile strage della Prima guerra mondiale (cosa per cui si fece sei anni di carcere), come all’insurrezione del primo dopoguerra che le costò la vita nei primi anni della Repubblica di Weimar. Capace di discutere aspramente coi suoi compagni e di difendere e condividere lealmente le decisioni del gruppo una volta adottate. Le sue teorie economiche sono ancora oggi studiate. Chissà cosa sarebbe oggi una simile figura. Una mente speculativa e attiva insieme che qui da noi, a mio parere, in politica non solo non l’abbiamo ancora vista, ma siamo beate in posizione orizzontale a confrontarci la lunghezza dei capelli facendoci i dispetti cercando di attirare l’attenzione del maschio alfa. E a credere che riuscire voglia dire dover essere così.
Hassiba Boulmerka, per quando correva – in calzoncini, ovviamente – senza demordere tra le ire misogine e violente di chi in Algeria lo giudicava sconveniente, costringendola ad allenarsi all’estero o chiusa negli stadi vuoti. Campionessa olimpionica e più volte vincitrice dei mondiali.
Ilda Boccassini. Una giudice che non si occupa di minori o divorzi, ma di mafiosi e di corrotti (suoi colleghi inclusi e diversi colletti bianchi). Con un manifesto degli Untouchables davanti alla scrivania, dicono. Che nel momento degli attentati mortali a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino chiese e ottenne di essere trasferita alla Procura di Palermo per indagare sulla morte di coloro con cui aveva lavorato. Quanti l’avrebbero fatto? Ovviamente davanti a un personaggio simile va di moda occuparsi dei suoi abiti.
Rita Levi Montalcini: ma quel che avevo scritto su di lei, purtroppo, ho dovuto anticiparlo qui.
Emilie du Chatelet: chi conosce Monsieur Isaac Newton? La signora sì, lo ha tradotto per prima dal latino in francese, mentre a casa nostra un tal marchese Algarotti, citatissimo in tutte le antologie, si limitava a farne una versione ridotta per, diceva lui, farlo capire anche alle dame... Oltre a tradurre, Emilie faceva esperimenti scientifici nel suo castello di Cirey, insieme a un certo François-Marie Arouet, detto Voltaire, distraendolo per vari anni dalla composizione poetica. Un libro bellissimo racconta la sua e la loro vita: Emilie, Emilie di Elisabeth Badinter.
Un’altra donna che guarderei come un modello è Natalie Zemon Davis e la sua Passione della storia (ancora un’autobiografia, toh), che nell’originale è ancora più bello: si chiama L’histoire tout feu tout flamme.
Mi è sempre stato difficile, invece, accostarmi ai personaggi macerati, tormentati, lamentosi, introspettivi, pessimisti, folli, velenosi, plumbei e affini. Li sogguardo a rispettosa distanza e in genere vado un po’ più in là. A cercare aria. Questo spiega alcune assenze di nomi famosi.
 Ah, e poi m’è sempre piaciuta questa lettera. Per la sua capacità di mettere l’altra metà dell’umanità di fronte a sé stessa: cosa che non ha ancora assolutamente imparato a fare.
A rileggere ora questa lista eterogenea e discontinua di passioni, di ammirazione e di capricci momentanei direi che un filo comune c’è: sono tutte donne di sfida. Indomite, hanno spesso superato grandi difficoltà e in qualche modo l’ordine stabilito. Ma non sono provocatrici narcisiste fini a sé stesse. In genere avevano desideri e mete quanto principi: per sopravvivere e vivere sapevano difendere e portare avanti entrambi. Tutte, più o meno apertamente, hanno rimesso in gioco da cima a fondo l’immagine delle donne come era vista nel loro tempo.